La Causa 19, Graziano, e lo Ius
commune
Ken Pennington
L’argomento della
Causa 19 non è insolito: la disciplina dei chierici negli ordini religiosi. La
Causa fa parte di una serie di Causae dalla 16 alla 20, in cui Graziano ha
esposto diversi problemi relativi alla vita monastica e agli ordini religiosi.
Le questioni sollevate dalle fonti della Causa 19, hanno coinvolto e
disorientato gli storici da parecchi secoli. La Causa è sorprendente per il suo
accumulo di testi attribuiti a Urbano II e Gregorio VII. E’ l’unico punto nel Decretum dove troviamo
raggruppata la legislazione di questi due papi riformatori[1]
E’ anche singolare che illustri studiosi abbiano messo in
discussione l’autenticità del penultimo di questi capitoli nella Causa 19.
[2]
La questione
dell’autenticità è ulteriormente aggravata dalla dottrina radicale contenuta in
una decretale di Urbano (Duae sunt), che sembra esporre l’argomentazione
antinomica secondo cui i chierici potrebbero seguire le loro coscienze e
disubbidire ai loro superiori, qualora ispirati dallo Spirito Santo.
[3]
Un altro decreto
di Urbano appare in contrasto con la sua ben nota comprensione per la vita
monastica.[4]
La scoperta di cinque manoscritti
che
attestano una precedente recensione di Graziano, rende ancor più complicata
l’analisi della Causa e specialmente delle lettere di Gregorio e Urbano. Oggi
adotterò la terminologia di Anders Winroth.
[5]
Chiamerò Graziano
I la versione più antica di Graziano che si trova questi cinque manoscritti, e
Graziano II il testo divulgato.
Lo forma dei testi pontifici in questi
manoscritti, non si trova in quasi nessuna delle collezioni precedenti. Di
conseguenza, non solo non possediamo informazioni sicure sulle fonti formali
della Causa, ma lo forma dei testi in questi manoscritti, rende difficile la
ricerca delle fonti formali di Graziano I.
Oggi vorrei considerare il progetto
della Causa 19 in Graziano I. Riesaminerò l’autenticità dei testi di Papa
Gregorio e Urbano. Infine valuterò quello che può dirci la testimonianza della
Causa 19 in St. Gall Stiftsbibliothek 673, sui misteri ancora da chiarire per
comprendere la relazione tra Graziano I e Graziano II.
Per prima cosa il progetto. All’inizio
della Causa 19, Graziano stabilì il principio che deve essere il vescovo a
concedere ad un ecclesiastico il permesso di entrare in monastero, e citò un
canone del Quarto Concilio di Toledo. In seguito Graziano fece riferimento ad
una lettera di Papa Leone il Grande, in cui il papa dichiarava che nessun
ecclesiastico dovrebbe essere accolto da chiunque sia, se il vescovo
dell’ecclesiastico non avesse accordato la sua autorizzazione. Questa lettera
sembra contraddire il canone di Toledo. Graziano risolse il conflitto nel suo
‘dictum’. Scrisse che si doveva ritenere valida tale norma pontificia, a meno
che un ecclesiastico volesse intraprendere una vita migliore (più rigorosa).
Per suffragare quest’asserzione, Graziano introdusse una lettera di Papa Urbano
II, “Duae sunt”. Poi Graziano si occupò del problema dei canonici regolari,
che, nel corso dell’undicesimo secolo, erano entrati a far parte del panorama
ecclesiastico.
[6] Molte autorità,
egli sosteneva, proibivano ai canonici regolari di trasferirsi alla vita
monastica. Graziano presentò due documenti pontifici per giustificare il suo
‘dictum’: un canone di Gregorio VII [Nullus abbas], emanato in un concilio e
una lettera di Papa Urbano II [Mandamus].
[7] In riferimento
al divieto generale nei confronti di un ecclesiastico secolare che intraprende
la vita monastica, Graziano presentò un’eccezione alla regola generale in un
‘dictum’ successivo alla lettera di Urbano: citò una lettera di Urbano
[Statuimus], secondo la quale se il priore di un ecclesiastico del capitolo
episcopale e gli altri canonici sostenevano il trasferimento di un canonico
regolare all’istituzione monastica, il trasferimento è valido.
Graziano I passò poi ad altre
questioni. Per prima cosa, si chiese se un monastero dovesse restare sempre
tale. Poteva essere secolarizzato? In secondo luogo, se un chierico si trasferiva,
quando doveva ricevere la tonsura? In terzo luogo, se un chierico che diventava
monaco, perdeva il suo diritto di fare testamento? La versione di Graziano I in
St. Gall tralasciava il secondo quesito. Riprenderò in seguito tale argomento.
In riferimento ai testi di Papa
Gregorio e Urbano. Il testo più
interessante nella Causa 19 è il capitolo “Duae sunt” (C(ausa).19 q(uestione).2
c(anone). 2), che, secondo l’iscrizione in Graziano I, Urbano emanò nel
capitolo episcopale di S. Ruf ad Avignone.
[8] Il testo è
costituito da una breve dichiarazione che consente ai chierici di diventare
monaci sia che i loro vescovi ne accordino il permesso oppure no.
Questa versione di “Duae sunt” era del tutto sconosciuta fino alla scoperta di Graziano I da parte di Anders Winroth[9] e la scoperta del manoscritto di St. Gall da parte di Carlos Larrainzar. [10]
La versione del
decreto pontificio che Graziano II incluse nel suo testo, era molto più lunga.
Era anche simile, se non del tutto identica, ai testi trovati in un gruppo di
collezioni precedenti a Graziano: Polycarpus, Collezione in 3 Libri, Collezione
in 7 Libri, Collezione in 13 Libri, e altre.
Dopo la scoperta
di Graziano I, gli studiosi hanno ritenuto che Graziano I abbreviò “Duae
sunt.” Hanno asserito che, come Titus
Lenherr ha dimostrato, poiché Graziano II prese il testo da una collezione che
diede origine al testo della Collezione in Tre Libri e della Collezione in Nove
Libri,
e siccome queste
due collezioni precedenti contengono il testo più lungo, Graziano I deve averlo
ridotto.[11]
Vorrei esaminare questa supposizione. In primo luogo si noterà che le aggiunte al testo nella prima e seconda parte, sono commenti al testo.
Nella prima parte, l’autore del materiale addizionale si rifà esplicitamente al D(istinzione).71 c(anone).7 e indirettamente alla C(ausa).7 q(uestione).1 c(anone).24 per chiarire le norme della “lex publica” cui Urbano si riferisce. Graziano I non incluse nella sua raccolta originaria, né l’uno né l’altro testo. Graziano II si.
In secondo luogo, i
riferimenti al Nuovo Testamento nella seconda metà della lettera, che spiegano
ciò che Urbano intendeva per “lex privata” e che definiscono la “libertas”
spirituale, costituiscono un ampliamento radicale del pensiero del papa. La
versione di Graziano I del testo di Urbano, consente ad un ecclesiastico
secolare, che desidera scegliere la vita monastica, di disobbedire al suo
vescovo. Il testo ampliato consente ad un ecclesiastico, pervaso dallo Spirito
Santo, di sfidare la gerarchia ecclesiastica. Alcuni canonisti posteriori, non
furono restii ad applicare il principio di questo canone ai vescovi che
desideravano rinunciare al loro ufficio divino ed entrare in monastero senza
l’autorizzazione pontificia.
[12]
Papa Innocenzo
III stroncò drasticamente questa sfida al potere pontificio, ma per un breve
periodo nella seconda metà del dodicesimo secolo, “Duae sunt” servì da
giustificazione per una certa “libertas”, anche se limitata, dei chierici che
erano ispirati dalle loro coscienze.[13]
Gli studiosi si sono accorti da
qualche tempo che l’incipit del testo non è tipico delle affermazioni
pontificie. “Duae sunt, inquit, leges” è una strana formulazione. Il papa parla
in terza persona. Sembrava una sintassi assai insolita per una lettera
pontificia, finché Robert Somerville redasse e stampò le lettere di Urbano che
si trovano nella Collectio Britannica.
Cinque testi pontifici attribuiti ad Urbano, gli fanno riferimento in terza
persona.
[14] Due di questi
testi sono attribuiti ai Registri di Urbano. Con tale testimonianza, la
sintassi del “Duae sunt” non appare così discutibile.
Ma una prova ancor più valida per
l’attribuzione del “Duae sunt” ad Urbano II, è fornita dal testo di Graziano
I. Era possibile che Graziano I non abbreviò il testo ma lo ricavò da
una fonte sconosciuta delle lettere di Urbano? Anche se a prima vista tale
possibilità non è convincente, credo che si debba considerare
quest’alternativa.
Le ragioni per considerare il testo di “Duae sunt” in Graziano I come testo originario ed autentico di Urbano, sono le seguenti. La forma della lettera corrisponde allo stile delle altre lettere conosciute di Urbano. La versione ampliata no. La citazione dei testi di diritto canonico nella prima parte, non è tipica della cancelleria di Urbano.
Anche le citazioni del Nuovo Testamento nella seconda parte per giustificare la
“libertas clericorum”, non sono caratteristiche delle altre lettere di Urbano.
In entrambi i casi ci sono dei brani in cui qualcuno ha presentato delle
argomentazioni per motivare la definizione di Urbano di diritto pubblico e
diritto privato. Il diritto pubblico vietava ai chierici di trasferirsi in
un’altra diocesi senza una lettera di presentazione. I chierici non dovrebbero
svolgere le loro mansioni in un’altra diocesi se non possono farlo nella propria.
La sezione aggiunta alla prima parte della lettera, è una chiara anticipazione
della definizione di diritto privato nel corpo della lettera. Questa asserisce
che il diritto pubblico canonico era stato istituito per punire i trasgressori.
Ai chierici non era concesso di lasciare la loro diocesi, in quanto erano
chierici scellerati e criminali. In questa versione del “Duae sunt”, Urbano
distingueva tra “clerici vagantes et infames” e “clerici spirituales.” I “clerici criminosi” rientravano tra le
censure del diritto pubblico canonico, i “clerici spirituales” erano svincolati
dall’autorità dei loro vescovi. La mia motivazione conclusiva sarebbe il
classico quesito che formuliamo riguardo ad ogni problema testuale: quale
soluzione è l’ipotesi più economica o più semplice. Si può supporre che
Graziano I si proponeva di sviscerare e adattare il testo di Urbano
(affermazione dubbiosa). Comunque il fatto che avrebbe redatto “Duae sunt”, in
particolare la seconda metà del decreto pontificio, come fece, sicuramente è
un’ipotesi (troppo) complicata.
Graziano II aggiunse la frase chiave,
già rinvenuta nella Collezione dei 13 Libri, alla sua versione finale.[15]
Farei rilevare
che l’aggiunta di quella frase altera il progetto di Graziano I. Graziano I
passava dal quesito generico dei chierici che entrano in monastero nelle
Questiones I e II, alla questione specifica dei canonici regolari nella Questio
III. L’introduzione della frase “vel canonica regulari” nel “Duae sunt”,
modifica la sua organizzazione originaria.
Nel canone di Graziano I, Urbano
decretò che i chierici pervasi dallo Spirito Santo, che lasciano i loro beni
alla loro chiesa episcopale, possono entrare in monastero. Solo questo e nulla
più. Nel contesto del tardo undicesimo secolo, la lettera di Urbano non era un
documento radicale.
Ciò che
estremizzava la lettera era l’esegesi di “privata lex”, supportata dai brani del Nuovo
Testamento.
Tali brani trasformarono l’affermazione di Urbano nell’asserzione generica
che chiunque sia guidato dalla sua coscienza, rientra nella competenza del
diritto positivo. Titus Lenherr ha fornito un’ulteriore prova che ci consente
di mettere in discussione l’autenticità di questi brani. Lenherr redasse “Duae
sunt” come fu rinvenuto in tutte le collezioni antecedenti a Graziano e in
Graziano II. La sua edizione dimostra chiaramente che queste parti del “Duae
sunt” che non si trovano in Graziano I, hanno tradizioni testuali instabili –
molto più variabili, ritengo, di quanto si noti normalmente nella tradizione di
una lettera pontificia.
Prima di tornare alla questione di chi
avesse inserito questi brani nel “Duae sunt”, esaminerò la sezione conclusiva
della Causa 19 in Graziano I, la Quaestio III.
Graziano I affermava che i canonici regolari non possono trasferirsi in
monastero a meno che non ricevano il permesso del loro abate. Per convalidare
questa tesi individuò un canone conciliare attribuito a Papa Gregorio VII e due
canoni attribuiti a Papa Urbano II. Peter Landau ha sostenuto che il canone
attribuito ad Urbano in C(ausa).19 q(uestione).3 c(anone).1, è un falso. .[16]
Horst Fuhrmann ha anche affermato che il
capitolo attribuito ad Urbano in C(ausa).19 q(uestione).3 c(anone).2, non sia
autentico. Questi testi di Urbano e Gregorio circolavano insieme in diverse
collezioni precedenti a Graziano. La Collezione in Nove Libri ha proprio la
stessa iscrizione di “Duae sunt” e “Nullus abbas”, come scopriamo in St.Gall
[Project image].
Com’è caratteristico dei testi di
Urbano e Gregorio, tali lettere non circolavano molto e si trovavano solo in
alcune collezioni.[17]Il motivo della
mancanza di divulgazione è che i canonisti che compilarono le collezioni da ca.
1050 a 1100, collocarono nelle loro collezioni pochissimi decreti dei papi
contemporanei. Solo nel dodicesimo secolo, troviamo canonisti che introducevano
abitualmente nelle loro collezioni la legislazione contemporanea. Graziano I e
II, ad esempio, non inclusero molti testi di Gregorio VII, Urbano II, e
Pasquale II — ma le sue fonti erano limitate da quello che i compilatori
precedenti inclusero nelle loro collezioni, e dai suoi stessi preconcetti su
quali fossero le fonti del diritto canonico.
Per il nostro intento, possiamo individuare
due aspetti essenziali sulla considerazione dei canonici regolari in Graziano I
nella questione tre. In primo luogo, nonostante la sua affermazione che molte
autorità vietano il trasferimento dei canonici regolari ai monasteri, riuscì a
trovare solo tre testi, uno di Gregorio e due di Urbano. Se il canone di
Gregorio è un falso, potrebbe essere una delle più maldestre contraffazioni mai
fatte. La rubrica è particolarmente strana, e avrebbe destato il sospetto di
quasi chiunque: in St. Gall dice: “Vnde in concilio congregrato sub vii.
Gregorio legitur.”
Gli altri manoscritti di questa tradizione aggiungono il nome del concilio:
Eduensis (“Vnde in concilio Educensi congregato sub vii. Gregorio legitur” A).
Una rubrica che afferma che il concilio è “congregato sub septimo Gregorio”, è
una sintassi singolarmente strana. Possiamo ammettere che un contraffattore
successivo sarebbe stato così sciocco? Sono indotto a considerare la
possibilità che Graziano I fu compilato sulla base di una fonte con quest’unica
dicitura (come la Collezione in 9 Libri). Proprio come nell’enunciazione “Duae
sunt, inquit, leges”, potremmo avere a che fare con una consuetudine
dell’undicesimo secolo che in seguito è scomparsa. Come Peter Landau ha fatto
notare, la rubrica di un canone simile attribuita ad Autun e che si occupa dei
chierici che avevano preteso di condurre vita comune, in un’aggiunta alla
collezione di Anselmo di Lucca in Vat. San Pietro C.118, fol. 23rb-23va, dice:[18]
Ex concilio Eduensi cui prefuit Hugodensis (!) Episcopus romane ecclesie legatus
Si potrebbe
concludere che la rubrica che troviamo in Graziano I e Graziano II, esprime
l’idea che il canone era “ex concilio congregato sub auctoritate septimi
Gregorii.”
Il manoscritto di
St. Gall fornisce un’ulteriore prova. Il testo dice:
Nullus abbas uel
monachus <canonicos regularespc> a(?) proposito professionis
canonice reuocare atque ad monachicum habitum trahendo suscipere audeat ut
monachi fiant.
A questo punto riconosco senza difficoltà che l’aggiunta marginale “canonicos regulares”, può essere una correzione del copista. Comunque, poiché altre collezioni canoniche e Graziano II aggiunsero “canonicus regularis” a “Duae sunt”, dobbiamo essere preparati a considerare la possibilità che Graziano I fece proprio lo stesso in merito a “Nullus abbas”, quando lo collocò nella questione tre. Sappiamo che se un concilio sotto Gregorio VII emanò un decreto che disciplinava i chierici che avevano professato vita comune, è assai improbabile che il canone avrebbe fatto un riferimento specifico ai canonici regolari. Lo stato legale dei canonici regolari diventa una questione importante solo all’inizio del dodicesimo secolo (come dimostra la Causa 19). Graziano I potrebbe aver avuto una fonte che attribuiva questo canone ad un concilio che si svolse durante il pontificato di Gregorio. Graziano I lo attribuì ad Autun e aggiunse la frase “canonicus regulares.” Impossibile? No. Probabile? Non ne sono sicuro. La prova è intrigante.
Allora, torniamo a il capitolo “Mandamus” di Urbano II. Graziano I ha preso questa lettera da una fonte ancora sconosciuta. Lui ha lasciato fuori le parole importante “mandantes” e anche più importante le parole “presumptionis sue.” Forse Horst Fuhrmann ha ragione: questo capitolo non é di Urbano II. Ma come gli capitoli “Duae sunt” e “Nullus abbas” la fonte é sconosciuta. Per me questo fatto significa che i capitoli possono essere autentici. Cambiati si. Falsi non.
Per tornare al progetto di Graziano I.
L’ultima parte della questione tre è un miscuglio di problemi che hanno poco a
che fare proprio con il quesito del trasferimento di un canonico regolare.
Invece Graziano I torna al problema generale del trasferimento e di altre norme
che regolano la vita monastica, quando si chiese se i monasteri potevano essere
trasformati in abitazioni per chierici e per laici (C(ausa).19 q(uestione).3
d(ictum).p(ost).c(anone).3). Tale quesito sembra cambiare completamente il tema
della Causa 19. Dopo il c(anone).5 Graziano I portò ancora più lontano la
discussione, domandandosi quando dovrebbe ricevere la tonsura un chierico che
entra in monastero (C.19 q.3 d.p.c.5). Fatto rilevante, come ho già osservato,
tale quesito è omesso nel manoscritto di St. Gall. Infine Graziano I si chiese
se con il trasferimento si perde il diritto di fare testamento. Tale questione
si adatta senz’altro al progetto complessivo della Causa 19, perché il problema
della proprietà clericale è sollevato in “Duae sunt”.
Cosa ne deduco da questa prova? In primo luogo, penso che Graziano I prese il testo di Gregorio VII da una fonte sconosciuta, da cui compilò anche la Collezione dei 9 Libri. In generale, credo si possa concludere che St. Gall sembra contenere una versione del testo antecedente a quella trovata negli altri manoscritti di Graziano I. Se Graziano I aggiunse “canonicos regulares” al testo del canone, ciò dimostra maggiormente che St.Gall sia un esemplare iniziale del testo di Graziano I. In secondo luogo, credo che la versione più remota di Graziano I omise forse le affermazioni dopo C.19 q.3 c.3 e dopo C.19 q.3. c.5. Di conseguenza, l’omissione di St. Gall di C.19 q.3 d.p.c.5, attesta uno stadio intermedio.
Si
può trovare un’ulteriore prova di questo nella forma di C.19 q.3 c.5, che è
abbreviata in St. Gall ma ampliata nel resto dei manoscritti iniziali di
Graziano I. Siccome i capitoli c.4, 5, e 6 furono tutti abbreviati in Graziano
I e poi ampliati in Graziano II, sono in dubbio se l’abbreviazione di c.5 in
St. Gall possa essere attribuita ad un copista sbadato o ad una “reportatio.”
[19]
Per tornare a “Duae sunt.” Se ho
ragione e Graziano I prese “Duae sunt” da una fonte sconosciuta delle lettere
di Urbano II, quali possibili conclusioni possiamo trarre sulla base di questa
congettura? Poiché la versione ampliata di “Duae sunt” si trova in ogni
collezione canonica antecedente a Graziano II, e siccome la versione più remota
di questo testo si trova in Polycarpus, che può risalire agli anni dieci del
1100, lo sconosciuto che aggiunse le asserzioni bibliche e canoniche operava al
principio del dodicesimo secolo. Si può concludere che quando Graziano I
aggiunse la lettera di Urbano, non era a conoscenza della versione ampliata.
Altrimenti potremmo ritenere che avrebbe introdotto la versione ampliata di
“Duae sunt” nella sua collezione, e l’avrebbe potuta trovare in molte
collezioni contemporanee. Di conseguenza Graziano I deve aver iniziato ad
operare al principio del dodicesimo secolo, come sostenne Vetulani molto tempo
fà. La seconda conclusione sarebbe che questi brani non sono opera di Graziano.
Sono frutto di qualcuno che conosceva i testi canonici ed aveva una
comprensione sofisticata del diritto canonico. Queste aggiunte a “Duae sunt”
possono essere un esempio iniziale di una dottrina sofisticata (un
insegnamento?) del diritto canonico. Poiché questo testo si trova nelle
collezioni italiane, potrebbe presentare la testimonianza di un altro
insegnante italiano di diritto canonico, all’inizio del dodicesimo secolo.
In seguito, Graziano II
ritenne
che l’analisi del testo di Urbano fosse valida, e collocò nel suo Decretum il
testo ampliato. Aggiunse al suo Decretum anche i capitoli citati nella prima
parte di “Duae sunt”.
Risulta impossibile sapere se la forma ampliata di “Duae
sunt” sia di Urbano, o se capì che i brani aggiunti non appartenessero a
Urbano. Ciò che sappiamo è che Graziano e gli altri canonisti avevano alterato
i loro testi ed avrebbero continuato a farlo. Non lo ritenevano un falso ma un
chiarimento dei testi. Misero a fuoco il significato dei loro testi con
modificazioni editoriali.
C’è
ancora
molto lavoro da dover fare. Oggi le mie osservazioni sono
basate su una Causa molto breve e molto insolita.
L’intero Decretum
deve essere studiato con attenzione e se ne deve estrarre ogni briciolo di
prova. E’ necessario
considerare con molta
attenzione come Graziano I e Graziano II pianificarono e adattarono ogni Causa
nel Decretum.
Bisogna osservare le differenze tra il manoscritto di St. Gall e gli altri
quattro manoscritti iniziali di Graziano I in altre causae, al fine di
stabilire se possiamo discernere altri indizi di uno stadio più remoto del
Decretum, quale credo si possa notare nella Causa 19. La testimonianza testuale
della Causa 19 può risultare unica e non tipica. Se è così penso che non si
possano convalidare le mie conclusioni sul fatto che St. Gall fornisca degli
indizi di redazioni ancora più remote. Se è possibile trovare altre prove in
altre causae, che riproducano il tipo di testimonianza fornita dalla Causa 19
in St. Gall, c’è molto lavoro da fare. Quando avremo finito, si avrà una
conoscenza più pregnante di Graziano e del diritto canonico all’inizio del
dodicesimo secolo.
[1] Nella sua raccolta, Graziano non ha incluso quasi niente della legislazione di Gregorio e ben poco di quella di Urbano. Vedi D.56 c.1, c.11, 13 (Alessandro II?), c.14 (Urbano) e D.96 c.9-10 (Gregorio).
[2] Kuttner, BMCL 1 (1971) 9-13; Pennington, Pope and Bishops (1984) Fuhrmann, Papst Urban II. (1984) 18-19; Landau, Libertas Christiana (1991) 71-73.
[3] Discussa per la prima volta ai nostri tempi da Carlo Sebastiano Berardi, Gratiani canones genuini ab apocryphis discreti (Turin 1755) 2.2.447-448. Pennington, Pope and Bishops `104-114 and Landau, Libertas Christiana 83-96.
[4] Fuhrmann, Papst Urban II., especially 17-21.
[5] The Making of Gratian’s Decretum (Cambridge 2000).
[6] Uta-Renate Blumenthal, Gregor VII. (2001) 106-119.
[7] “Vnde in concilio congregrato sub vii. Gregorio legitur “ Sg; “Vnde in concilio Educensi congregato sub vii. Gregorio legitur” A
[8] Titus Lenherr, “Zur Überlieferung des Kapitels “Duae sunt,” AKKR 168 (1999) 369- 374.
[9] The Making of Gratian’s Decretum.
[10] “El borrador del la “Concordia” de Graziano: Sankt Gallen, Stiftsbibliothek MS 673 (=Sg),” 9 (1999) Ius ecclesiae: Rivista internazionale di diritto canonico 593-666.
[11] Lenherr, “Duae sunt” 381-384.
[12] Pennington, Pope and Bishops 104-114.
[13] Ibid. 106-107. Landau, Officium und Libertas 83-91
[14] Robert Somerville, Pope Urban II, The Collectio Britannica, and the Council of Melfi (1089) (Oxford 1996), CB 8, 11, 17, 28, 44. Due di questi brani, quasi sicuramente, si trovavano nei Registri di Urbano (Somerville, p. 53-54).
[15] Lenherr, “Duae sunt” 364.
[16] Landau, Officium und Libertas 76-82.
[17] Quando John Gilchrist discusse le tradizioni canoniche dei decreti di Gregorio VII, sembra aver minimizzato questo fatto fondamentale: “The Reception of Pope Gregory VII into the Canon Law (1073-1141),” ZRG Kan. Abt. 66 (1980) 192-229.
[18] Landau, Officium und Libertas 77-78, n. 65.
[19] Larrainzar ha messo in rilievo una gran quantità di canoni in St. Gallen che sono abbreviati. É necessario esaminarli tutti prima di poter giungere con sicurezza a qualche conclusione riguardo al rapporto tra St. Gallen ed il resto della tradizione manoscritta di Graziano I. Vedi l’elenco dei capitoli segnati con un asterisco in “El Borrador” 652-662.